Camosci e girachiavi. Storia del carcere in Italia 1943-2007

In breve...

Il carcere è un mondo immerso nella società, ma è anche un’istituzione sempre pronta a ripararsi dagli sguardi estranei, nascondendosi dietro le mura di cinta. Un’istituzione che si trasforma, ma che rivela anche un’impressionante continuità nei meccanismi che dominano il suo funzionamento quotidiano, nella sua materialità fatta di sbarre, cancelli e camminamenti di ronda.
È per questa ragione che sin dalle pagine introduttive di questo volume il lettore è gettato in modo forse irriguardoso tra celle e sezioni, ‘domandine’, ‘infami’ e cortili dell’‘aria’. Già il titolo in verità lo ha proiettato dietro le sbarre: nel gergo carcerario i ‘camosci’ sono i detenuti, i ‘girachiavi’ sono gli agenti di custodia.
Da questo inusuale e scomodo punto di vista, utilizzando fonti in gran parte inedite, Christian G. De Vito guarda ad alcune pagine centrali della storia politica e sociale italiana. Dagli istituti penitenziari osserva la fase conclusiva della Seconda guerra mondiale e il dopoguerra, racconta un miracolo economico sfocato perché vissuto da dietro le sbarre, segue la trasformazione del sistema carcerario sotto la spinta della contestazione post-1968 per addentrarsi poi negli anni di piombo e negli anni Ottanta e rivivere le più recenti trasformazioni legate ai flussi migratori globali e alle politiche fondate sulla sicurezza.

Indice

Prefazione di Guido Neppi Modona
Introduzione. In carcere
I. Carceri in guerra, carceri del dopoguerra
II. Immagini dal carcere pacificato
III. Rivolte, riforme, repressione
IV. Modernità penitenziaria
V. Dallo Stato sociale allo Stato penale
Fondi di archivio e abbreviazioni
Note
Bibliografia
Ringraziamenti
Indice dei nomi

lunedì 16 agosto 2010

Recensione su "Passato e Presente" - luglio 2010

Se vuoi conoscere un paese visitane le prigioni
Monica Galfré

If you want to know a country visit its prison. Monica Galfré reviews Camosci e
girachiavi. Storia del carcere in Italia 1943-2007 (Laterza 2009) by Christian G. De
Vito, an innovating book also in an European outline, which analyzes a relevant but
for a long time neglected theme. The volume focuses on the relationship between
prison and society during the sixty years of the Italian Republic: its object is not only
the institutional history of the prison, but also its real and daily running, thanks to a
massive archival research and to the critical use of the philosophical, sociological
and political reflections.

Key words: Prison, Italian Republic, society, seventies.
Parole chiave: carcere, Italia repubblicana, società, anni ’70.

Nonostante il periodico riaffiorare dell’emergenza carcere, del mondo posto al di là delle mura di cinta, dei cancelli e delle sbarre si continua a sapere poco o niente. Una sorta di rimozione collettiva che ha in qualche modo inibito anche la riflessione storiografica, a dispetto delle indubbie sollecitazioni provenienti dalla ricerca filosofica e sociologica. È in questo senso significativa l’accoglienza che fu riservata a Sorvegliare e punire di Michel Foucault, il libro che nel 1974 rilanciò l’interesse per il carcere in un’Europa percorsa, pochi anni prima, da violente rivolte di detenuti: se gli storici ne discussero le tesi sollevando molte riserve nella stessa Francia, in Italia, dove il testo fu tradotto nel 1975, la reazione fu di sostanziale chiusura, a riprova di un dialogo disciplinare tradizionalmente conflittuale.
Il periodo privilegiato dall’importante libro di Christian De Vito, coincidente con la nostra storia repubblicana a partire dalla Resistenza, appare il più negletto anche per quanto riguarda gli altri paesi continentali. Se si escludono gli accenni contenuti negli studi di sintesi che caratterizzano la storiografia francese, senz’altro la più matura e ricca del settore, l’interesse ha ovunque
privilegiato le origini del sistema penitenziario, sulla scia dell’esempio foucaultiano.
Nel caso italiano le eccezioni sono pochissime per tutto il periodo unitario, ma tra queste costituisce ancora un solido punto di riferimento il saggio di Guido Neppi Modona per la storia d’Italia Einaudi ormai risalente al 1973, che pure agli anni successivi al 1948 dedica rapidi accenni.
A fronte di queste lacune risalta tutto il valore pionieristico del lavoro di De Vito – non a caso prefato dallo stesso Neppi Modona – che non si è potuto avvalere di nessuna forma di organizzazione della ricerca come quelle esistenti sul tema penitenziario in Francia e in Belgio o, di altro tipo, in Inghilterra e nei paesi scandinavi. Tanto più imponente appare quindi il suo scavo documentario, che ha consentito una vera e propria opera di ricognizione delle fonti d’archivio disperse in molti luoghi diversi, non ultimo per il disinteresse e l’incuria dell’amministrazione penitenziaria. Il materiale utilizzato spazia dai fondi del ministero di Grazia e Giustizia, in parte versati all’Archivio centrale dello Stato, alle carte relative ai singoli istituti di pena: quelle
confluite negli archivi di Stato delle corrispondenti province, come nel caso della Casa circondariale di Torino «Le Nuove», degli Istituti di pena di Perugia e di Firenze per gli anni 1966-1980; e quelle che non sono state versate (compresa la documentazione della Scuola di formazione e di aggiornamento del personale penitenziario di Cairo Montenotte) e sono rimaste nelle carceri, con ulteriori effetti negativi sulla consultazione, già limitata almeno formalmente
da ragioni di sicurezza nazionale e ordine pubblico. Per integrare le fonti istituzionali – che a cominciare dai primi anni ’70 segnalano vuoti vistosi– si sono rivelati preziosi gli archivi privati di alcune personalità impegnate su vari fronti della questione carceraria, da Mario Gozzini a Irene Invernizzi, una delle responsabili della Commissione carceri di Lotta continua.
È proprio grazie alla solidità della ricerca che il confronto con le riflessioni sul carcere di filosofi e sociologi, politici e militanti, cui De Vito non si sottrae, si mantiene programmaticamente aperto: e implica una continua verifica delle categorie interpretative e dei diversi punti di vista, favorita talvolta anche dalla possibilità di incrociare fonti interne e fonti esterne al carcere.
Del resto, il rischio di una lettura ideologica appare tanto più concreto in Italia, dove a rilanciare la questione carceraria contribuì in modo decisivo la sinistra extraparlamentare che, a fini rivoluzionari, cercò una saldatura politica con i movimenti dei detenuti dei primi anni ’70. Delle sollecitazioni di quella stagione la ricerca di De Vito appare comunque debitrice, non ultimo per il
numeroso materiale dell’epoca che è stato utilizzato, come volantini, opuscoli, manifesti, spesso conservato solo dagli ex militanti.
Escludendo realtà pur rilevanti come carceri femminili, minorili e manicomi criminali, De Vito traccia un quadro di sintesi destinato a diventare la base delle future ricerche del settore. Asciutto e scorrevole, e tuttavia denso, il testo non risulta mai appesantito dai riferimenti documentari, di cui solo l’apparato delle note rivela nel dettaglio la ricchezza. La fittissima trama di voci e volti, luoghi e piani di osservazione che ne emerge consente di ampliare l’ottica istituzionale tradizionalmente privilegiata un po’ ovunque, e fa di questo un libro innovativo anche nel panorama europeo. Il suo oggetto non si limita agli aspetti formali fatti di leggi e regolamenti, e alla loro tormentata genesi, frutto di compromessi tra orientamenti non di rado contraddittori; ma comprende anche il funzionamento quotidiano del pianeta carcere, quell’«ambivalente meccanismo di punizioni e ricompense» (p. XXXII) su cui incidono le prioritarie esigenze disciplinari e l’altissimo potere discrezionale delle autorità direttive.
Appare in questo senso chiara l’influenza del «potere disciplinare» descritto da Foucault come una sorta di controdiritto e di sospensione della legalità, combinato con la riflessione sociologica sul carcere come istituzione totale. Si tratta di chiavi interpretative che si rivelano pienamente funzionali a descrivere un tratto forte del sistema penitenziario italiano: la distanza tra carcere formale e carcere reale, lo scollamento tra un’immagine edulcorata e la durezza di una prassi assoggettata a regole molto lontane da quelle scritte (si pensi al sistematico utilizzo delle spie per sventare i progetti di evasione). La dialettica tra la normativa e la sua applicazione, presente in ogni settore dello Stato, finisce in questo caso per richiamare un nodo dolente dell’Italia repubblicana, quello dell’inattuazione costituzionale. Il contrasto tra il carattere rieducativo della pena sancito dalla Costituzione e il persistere di una concezione meramente afflittiva, al di là delle stesse riforme, determina il destino del carcere e, più in generale, tocca una questione cruciale per la democrazia.
Per quanto «la separazione tra carcere e società esterna» sia «la finalità principale del meccanismo penitenziario» (p. XXIII), De Vito si propone di sfatare il pregiudizio che si tratti di vicende separate, come fanno invece supporre le lacune della storiografia del settore a fronte dell’interesse crescente per l’Italia repubblicana. Se pur sui generis, il carcere è anche un’amministrazione dello Stato, un’istituzione «opaca» (p. 151) e contraddittoria, che ubbidisce a un disegno univoco ma che in realtà è al suo interno estremamente frammentata. Nonostante
la legge sia uguale per tutti, il meccanismo della differenziazione, finalizzato al controllo e alla disciplina, impone la divisione in gruppi omogenei via via più ristretti e una sostanziale diversificazione della pena, cui contribuisce anche un abile dosaggio di premi e punizioni. Implicita nella funzione che le è propria, la separatezza del carcere è fisica, ma è anche causa ed effetto di un disinteresse trasversale a tutto il ceto politico e dell’immobilismo del sistema penitenziario italiano, sul quale le continuità sembrano prevalere sulle rotture.
Il filo conduttore della sua storia è riconosciuto nella materialità del carcere e della vita carceraria, che si conferma questione e politica dei corpi, nonostante Foucault abbia affermato che con la nascita della prigione l’oggetto della pena si spostò dal corpo all’anima del reo. Senza mezzi termini l’introduzione proietta il lettore In carcere, dove la «continua dialettica tra adattamento e reazione» (p. XXVII) scorre in una dimensione apparentemente senza tempo – se non in quel tempo sospeso che diventa «terreno di un conflitto permanente» (p. XXIII)
tra il detenuto e le autorità penitenziarie, e che finisce per coincidere con lo spazio angusto concesso al recluso. Privandolo di ogni autonomia, la detenzione strappa l’individuo alla propria vita per consegnarlo a una dimensione altra, fatta di solitudine e promiscuità insieme. La comunità carceraria è costituita da una rete complessa di relazioni formali e informali, nella quale l’identità di ciascuno dei protagonisti si modella in rapporto a quella degli altri. In primo luogo i «camosci» e i «girachiavi», cioè i detenuti, che non ne sono solo oggetti ma anche soggetti, e gli agenti di custodia, con la loro militaresca ossessione per la disciplina. Un mondo nel quale, anche per la difficoltà di controllo insita nella sua natura, domina la violenza psicologica e fisica: che è violenza di tutti contro tutti, dell’istituzione, dei detenuti, degli agenti, e di cui sono esempio innumerevoli e ricorrenti suicidi, omicidi e morti sospette.
In questo senso il libro mira a ricostruire non tanto una storia carceraria dalla parte dei detenuti, quanto il contesto complessivo nel quale essi si trovano a scontare la pena; e allo stesso tempo si interroga sulla composizione della popolazione detenuta e sui fattori economici, sociali, culturali, giuridici che vi incidono, in un’ottica che risente delle tesi elaborate dalla sociologia e dalla “criminologia critica” anglosassone. A questo scopo svolgono un ruolo non secondario i colloqui e le interviste con chi a vario titolo, dai vertici dell’amministrazione ai detenuti, dai religiosi
agli agenti di custodia, ha incrociato la sua vita con quella del carcere; cui si aggiunge l’esperienza diretta che lo stesso De Vito ha maturato con il volontariato, vissuto con grande passione civile. Per oltrepassare il muro della reclusione il valore documentario della testimonianza è sempre parso indiscutibile. «Bisognava aver visto», recitava nel 1948 la rivista «Il Ponte», presentando
le memorie di uomini politici incarcerati dal regime fascista, in appoggio ai lavori della Commissione parlamentare sulle carceri voluta dallo stesso Piero Calamandrei.
A essere veramente insostituibili sono in effetti le testimonianze dei detenuti, anche se non tutti hanno gli strumenti per dare alla propria esperienza un respiro più ampio, come Adriano Sofri, Sergio Cusani, uno dei primi condannati di Tangentopoli, e Sergio Segio, ex militante di Prima linea e animatore del processo di dissociazione dalla lotta armata, che non a caso si legò strettamente a un impegno sui problemi del carcere9. Bisogna riuscire a vivere la reclusione
non come una parentesi, ma come una fase della propria vita, se pur irreversibile: dopo essere stati tra «gli ultimi», tra i «dannati» – ha scritto Sofri – «anche potendo scegliere, non si tornerebbe più dall’altra parte».
A fronte della vischiosità e dell’impenetrabilità di questo mondo, la periodizzazione proposta da De Vito individua un nesso profondo tra storia penitenziaria e storia generale, che nel sessantennio repubblicano pare difficilmente riassumibile in una formula univoca: separati da una distanza che pare incolmabile, carcere e società si richiamano sempre l’un l’altro, se pur in modi diversi, ma solo raramente procedono in sincronia.
Il libro si apre con la seconda guerra mondiale e con il crollo del fascismo che, senza troppe mediazioni, irruppero anche all’interno degli istituti penitenziari: luoghi politicamente sensibili, essi si vennero a trovare al centro delle tensioni della guerra civile. I documenti d’archivio consentono di ricostruire non solo le evasioni e gli assalti realizzati dai partigiani ma, illuminando un aspetto finora trascurato, anche le modalità con cui i tedeschi trasformarono le prigioni in centri di deportazione, «una delle pagine più tetre della storia carceraria – e non solo – della Rsi» (p. 5).
Per quanto riguarda il dopoguerra, il libro sottolinea il continuo rinvio delle riforme strutturali fino al 1975, che confinò il carcere in posizione arretrata rispetto all’evoluzione della società. Pagine molto dense sono dedicate alle difficoltà con cui l’Assemblea costituente riaffermò infine la funzione educativa della pena: una posizione che, all’indomani del 1948, cominciò subito a scontrarsi con la resistenza delle forze conservatrici, favorite dal clima della guerra fredda. Con la rinuncia a un serio processo di epurazione, prevalse la continuità (unico segnale di rottura fu l’abolizione della pena di morte che era stata reintrodotta dalle leggi “fascistissime” del 1926), di cui era prova evidente la sopravvivenza del sistema sanzionatorio previsto dal codice penale. Negli anni del centrismo, parziali concessioni in direzione di una umanizzazione della detenzione, fatta propria dalla Commissione d’inchiesta sulle carceri, si alternarono alle più frequenti strette repressive. Il carcere svolse del resto un ruolo di contenimento dell’opposizione. De Vito ci ricorda che la riaffermazione della concezione afflittiva della pena implicò il mantenimento di ampi margini discrezionali nella gestione del carcere, che continuò a versare in condizioni
drammatiche. La ricostruzione degli edifici, che ebbe il proprio modello nell’ordine e nella razionalità di San Vittore, rispecchiò questi equilibri.
Quello che si affermò alla metà degli anni ’50 fu il «carcere morale» (p. 34) e ormai «pacificato» (p. 40) che aveva archiviato il disordine e le rivolte del dopoguerra: quel carcere a conduzione familiare nel quale la rieducazione fu declinata in senso cattolico, insistendo sull’idea di redenzione più che sul necessario sostegno sociale. Il nuovo ruolo pubblico del carcere si rifletteva nelle sempre più numerose cerimonie che si svolgevano al suo interno alla presenza di autorità civili e religiose, nelle quali De Vito ravvisa il riproporsi in scala ridotta della visita
di Giovanni XXIII a Regina Coeli nel dicembre 1958. Di cui egli però non sembra sottolineare a pieno il significato di rottura, affidato sì alla «affabilità paterna del “Papa buono”» (p. 34), ma non limitato ai confini morali che quell’aggettivo ha voluto indicare. Difatti, con la revisione della linea intransigente, la Chiesa di Giovanni XXIII si faceva, tra le altre cose, «madre amorevole di tutti», rinunciando alla condanna per la «medicina della misericordia» e, con la distinzione tra errore e errante, indicava i diritti umani come uno dei terreni di collaborazione di cattolici e non cattolici. Il che, per quanto riguardava la questione carceraria, si traduceva nel richiamo al valore rieducativo della pena e alla necessità di una sua umanizzazione. Per contro De Vito dà molto risalto alla visita di Giovanni Paolo II a Regina Coeli del 2000, cui si riconosce il merito di aver contributo (insieme alle associazioni di volontari) a riaprire il dibattito pubblico sul carcere che nel 2006 avrebbe portato all’indulto.
Se pur prive di effetti immediati, in realtà le novità del pontificato giovanneo avviarono un processo all’interno del mondo cattolico, fino ad allora esclusivo baluardo della conservazione, che dette i suoi frutti in seguito. Ne risultò trasformato il ruolo svolto in carcere sia dai laici, con il volontariato (nel 1971 nacque la Caritas), che dai cappellani (e dalle suore): i quali, da assistenti spirituali funzionali al sistema in accordo con la logica concordataria, assursero negli anni ’70 – si pensi a Salvatore Bussu nel carcere speciale di Badu ’e Carros – a critici della disumanità della detenzione e contestatori dell’ordine costituito; significativo era anche l’interesse di personalità come padre Adolfo Bachelet e padre David M. Turoldo. Non a caso la riforma carceraria del 1986 – che tra l’altro relegò i cappellani in una posizione marginale – si avvalse del contributo decisivo di cattolici che avevano anticipato e poi vissuto quella stagione con grandi speranze di rinnovamento, a cominciare da Mario Gozzini, senatore della sinistra indipendente che dette il nome alla legge.
Tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60, a smuovere le acque stagnanti del carcere, contribuì anche un nuovo indirizzo teorico e sperimentale che, facendo capo a un gruppo di riformatori raccolti attorno a Giuseppe Di Gennaro, rivendicava l’autonomia del mondo penitenziario, tradizionalmente subordinato a quello giuridico. Prevedendo un piano individualizzato di trattamento con l’assistenza di un’équipe medico-scientifica, al cui centro era non il reato ma la personalità del reo, si forniva una traduzione in termini clinici della concezione rieducativa della pena. Molti di quei principi, che trovarono applicazione nell’Istituto nazionale di osservazione fondato nel 1958, furono fatti propri dal disegno di legge Gonella del 1960, base dei futuri progetti di riforma compreso quello del 1975. A tutto questo continuò però ad opporsi l’immobilismo del carcere, di cui l’inchiesta condotta da «Tempo» tra il 1959 e il 1960 offrì uno spaccato significativo, rompendo per la prima volta – sottolinea De Vito – il monopolio dell’amministrazione penitenziaria sulla descrizione di quella drammatica realtà. Era uno dei tanti riflessi dell’incapacità dei governi di centro-sinistra di governare le impetuose trasformazioni legate al miracolo economico, che nei contesti urbani del Nord incisero sull’evoluzione della criminalità e sull’aumento esponenziale, nella popolazione detenuta, del sottoproletariato metropolitano e degli immigrati meridionali in specie.
Il decennio che inizia con le rivolte del ’68 e del ’69 – che dettero il via a un ciclo di aspre lotte nelle carceri, prima nel triangolo industriale e poi al Sud, in un’inspiegabile sincronia con quelle dell’Europa continentale – costituisce il fuoco della ricerca di De Vito; e anche la sua parte più originale, per l’importanza dei temi inesplorati che incrocia e per le piste di ricerca che suggerisce. Inizialmente del tutto spontanee, poi organizzate fino a dare vita a veri e propri movimenti, le proteste di questi anni segnano uno spartiacque rispetto agli anni precedenti; e il processo di azioni e reazioni che esse innescarono tra dentro e fuori rende il carcere un punto di vista irrinunciabile per leggere il cosiddetto lungo ’68. Una traccia che non esaurisce le vicende carcerarie del decennio ma che, privilegiando la detenzione politica di sinistra, consente di fare luce su un periodo cruciale sia per la storia penitenziaria che per la storia del paese.
De Vito dimostra che il carcere diventò uno dei luoghi nevralgici della contestazione, di cui furono veicolo i non pochi militanti extraparlamentari arrestati in quegli anni: i quali vi portarono dentro la politica, svolgendo un ruolo determinante nella politicizzazione dei detenuti comuni, e ne portarono fuori la disperazione, che incise sulla radicalizzazione delle loro posizioni, in una spirale crescente. Tra militanti esterni e avanguardie interne il collegamento, favorito anche dall’azione del Soccorso Rosso, fu costituito soprattutto da Lotta continua – «Tutti i detenuti sono detenuti politici» –, a cominciare dalla rivolta a Le Nuove del 1971, che ebbe tra i protagonisti Adriano Sofri. Sante Notarnicola, esponente della banda Cavallero, era il detenuto che meglio incarnava
il passaggio dal ribellismo individualistico alla militanza politica.
Di fronte alla tendenza del movimento dei detenuti a divenire permanente (nel ’73 raggiunse l’apice), contro cui la repressione si rivelò in parte controproducente, anche la politica fu costretta a intervenire. Inoltre, se la critica dell’istituzione carceraria aveva coinvolto anche i direttori, gli ispettori carcerari e singoli magistrati, tra il 1969 e il 1975 la crisi della criminologia clinica dominante negli anni ’50 e ’60 favorì la riflessione sulle misure alternative alla detenzione. Sulla base di un disegno di legge lasciato in sospeso da molti anni, nel 1975 si arrivò infine alla riforma del carcere che, grazie anche al maggior peso esercitato dalla sinistra parlamentare (in particolare da un Pci che stava accrescendo la sua forza nel paese), segnò un indubbio passo avanti verso l’umanizzazione e la rieducazione della pena; senza però intervenire sulla struttura gerarchica dell’amministrazione, e senza apportare le necessarie riforme dell’ordinamento giudiziario. Una disorganicità dovuta al modo in cui la stretta repressiva in corso inquinò il suo passaggio alla Camera nel 1974; le esigenze della lotta al terrorismo contribuirono al suo affossamento anche sul piano dell’applicazione.
De Vito riconosce una svolta cruciale della storia penitenziaria nel 1974, un anno che segnò anche una tappa decisiva nell’innalzamento del livello dello scontro, a riprova dell’inestricabile intreccio esistente tra carcere e lotta armata: alla rivolta nel carcere delle Murate di Firenze di febbraio, che si concluse con la morte di un detenuto e con scontri di piazza, seguì quella di maggio nel carcere di Alessandria, stroncata dall’intervento del generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa con sette morti, che suonò come un ammonimento alle Brigate rosse, impegnate nel sequestro di Mario Sossi, dando il via alla repressione nelle galere. A ottobre, con una rapina finita tragicamente a Firenze, i Nuclei armati proletari (Nap) firmarono una delle loro prime azioni. La loro fu una tragica e violenta meteora, un progetto fatto di disperazione e di ribellione istintiva, che ebbe il suo momento culminante nelle evasioni: era il frutto non previsto ell’intervento di Lotta continua (e di altri collettivi contigui) sul carcere, che proprio in quel momento venne infatti a cessare.
Se per capire la storia penitenziaria di questo periodo occorre tenere presente la lotta armata, anche il carcere si rivela un punto di vista indispensabile per studiare la lotta armata, nella sua genesi e nella sua affermazione, oltre che nella sua sconfitta.
In quel clima prese avvio il progetto di raccogliere i detenuti più riottosi in prigioni con un regime di particolare severità e sicurezza. Ma fu nel 1977 – l’anno del movimento del ’77 e dell’impennata dei tassi di violenza politica – ad essere formalizzato il «circuito dei camosci» (p. 93): ispirandosi alle carceri di rigore previste dal Regolamento del 1931, furono creati cinque istituti di massima sicurezza, nei quali si procedette a trasferire 1.000 detenuti (divenuti 3.500 già alla fine del decennio), tra politici, di sinistra e fascisti, mafiosi, ma anche i protagonisti delle rivolte e gli evasori. Curò personalmente l’operazione Carlo Alberto Dalla Chiesa, nominato «coordinatore dei servizi di sicurezza esterna degli istituti di prevenzione e di pena», già responsabile del primo nucleo antiterrorismo costituito nel 1974, nominato capo dell’Antiterrorismo nell’ottobre 1978, dopo l’omicidio Moro.
La durezza della repressione antiterroristica trovò conferma nella durezza del carcere speciale, al cui interno il «punto di massima repressione» (p. 104) era costituito dal penitenziario di Badu ’e Carros a Nuoro, dove dal 1983 fino all’ottobre 1984, oltre ogni limite legale, fu applicato un regime durissimo di isolamento derivato dall’applicazione dell’art. 90, esteso anche ai cosiddetti «braccetti della morte», cioè alle sezioni speciali di Ariano Irpino, Foggia e Torino.
Ma anche all’interno delle carceri speciali, divenute tra il 1978 e il 1980 terreno di scontro frontale con lo Stato, si affermò «uno stato di conflittualità permanente» (p. 98). Tuttavia un legame diretto tra lotta interna e lotta esterna si ebbe solo nel 1980 con il sequestro da parte delle Br di Giovanni D’Urso, responsabile della gestione delle carceri presso il ministero di Grazia e giustizia, cui si legò la battaglia nel penitenziario di Trani. Al fine di migliorare le condizioni dei detenuti fu richiesta e ottenuta la chiusura del carcere speciale dell’Asinara. A questo proposito il libro sottolinea che al vertice dell’organizzazione giunse allora Giovanni Senzani, responsabile del Fronte carceri, che nutrì un certo interesse per le organizzazioni mafiose, e in particolare per la
camorra, ritenuta la più autonoma nei confronti dello Stato.
Il legame tra carcere e fenomeno mafioso è noto. La guerra di camorra che tra il 1979 e il 1983 si combatté tra la Nuova Camorra organizzata – che Raffaele Cutolo guidava dalla sua cella del carcere speciale di Ascoli Piceno – e la Nuova famiglia, ebbe nei penitenziari che ne ospitavano i boss, e in particolare in Poggioreale, il suo fulcro.
Ma le vicende carcerarie – crocevia di realtà diverse – offrono un punto di vista inedito anche per ricostruire il passaggio dall’emergenza terrorismo all’emergenza criminalità organizzata, un punto sul quale – sia per la complessità del tema che per i vuoti degli archivi – De Vito si limita a porre il problema.
Snodo decisivo fu il sequestro attuato dalle Brigate rosse nel 1981 di Ciro Cirillo, assessore democristiano all’urbanistica della Regione Campania e presidente del Comitato che doveva gestire i fondi per la ricostruzione dopo il terremoto del 1980. La trattativa per il rilascio prese corpo nella cella di Cutolo, dove si avvicendarono brigatisti, camorristi, politici democristiani, agenti dei servizi segreti, dando la misura di quanto i soldi pubblici destinati alle zone terremotate avessero accresciuto il potere del boss, anche in termini di collusione con ampi settori dello Stato. E se le Brigate rosse ne ottennero il riconoscimento politico negato con il rapimento Moro (ma già avuto con il sequestro D’Urso), per il resto il loro fallimento fu totale: perché il sequestro Cirillo, più che denunciare, finì per rafforzare il sistema di corruzione e i meccanismi clientelari che si erano sviluppati intorno alla ricostruzione, mostrando così che sulla camorra erano state nutrite solo delle illusioni. Nel 1982 il passaggio di Dalla Chiesa a un’antimafia riorganizzata sul modello dei nuclei antiterrorismo, e il trasferimento di Cutolo all’Asinara, aprirono un nuovo capitolo.
La detenzione fu il contesto nel quale i militanti delle varie organizzazioni affrontarono la sconfitta della lotta armata e, assumendo posizioni diverse tra loro, cominciarono a riflettere su quella esperienza. Quella del terrorismo in carcere è una storia ancora tutta da fare, ma che non può essere ignorata se si vogliono ripercorrere i passaggi attraverso cui il paese ha superato l’emergenza degli anni di piombo. I tre gruppi in cui si divisero i detenuti politici – pentiti, irriducibili e dissociati – riproducevano le spaccature prodotte all’interno del mondo eversivo dalla varie fasi della lotta al terrorismo. Le disposizioni sui pentiti contenute nel primo pacchetto emergenziale del 1980, che stabilivano consistenti sconti sulla pena per chi accettava di collaborare con la giustizia, minacciarono la tenuta delle organizzazioni in modo irreversibile e indussero i loro militanti a un arroccamento difensivo. I pentiti furono vittime di esecuzioni efferate da parte degli irriducibili, secondo la stessa logica vendicativa che aveva guidato l’omicidio di Roberto Peci, fratello di Patrizio, primo pentito.
Nel 1983 prese avvio il processo di dissociazione, cioè una sconfessione pubblica della lotta armata, ma non delle sue premesse ideali, senza nessun tipo di collaborazione e con limitate riduzioni della pena. Un fenomeno che riguardò in particolare Prima linea come organizzazione e che, alla richiesta del superamento della legislazione speciale, univa una rilettura autocritica: avversato dalla magistratura e dalla maggioranza dei partiti, che non intendevano concedergli il riconoscimento politico cui esso ambiva, fu però favorito dalle autorità penitenziarie, e in particolare dal direttore generale Niccolò Amato, una figura di cui De Vito sottolinea la rilevanza.
L’istituzione delle «aree omogenee» nell’estate del 1983 intendeva rispondere a un’esigenza di pacificazione, anche a fini di ordine interno, e allo stesso tempo costituiva un nuovo livello di differenziazione opposto all’art. 90. Furono infatti favoriti i contatti con l’esterno, e mantennero assidui rapporti con i dissociati politici radicali come Franco Corleone, associazioni come il Gruppo Abele, e le personalità del mondo cattolico fiorentino gravitanti attorno alla figura di Ernesto Balducci; sorsero così riviste, cooperative sociali e associazioni di volontariato, cui i dissociati poterono far riferimento una volta che la legge sulla dissociazione permise loro di accedere al beneficio del lavoro esterno. A dimostrazione di come la prioritaria esigenza disciplinare potesse talvolta porre il carcere in posizione avanzata rispetto alla politica e alla società. Carcere speciale e detenzione politica si erano messi in crisi l’un l’altro.
Il processo di dissociazione, che sfociò in una legge specifica, ebbe anche un «ruolo significativo nella genesi» (p. 111) della legge carceraria approvata nel 1986. Sviluppando un disegno di legge originario elaborato da Gozzini e Alessandro Margara per disciplinare la massima sicurezza, la legge Gozzini costituì un indubbio passo avanti, mirando però a «una modernizzazione dell’istituzione penitenziaria più che a una prospettiva di decarcerizzazione» (pp. 112-13), come quella sostenuta invece dai dissociati. Una modernizzazione di cui De Vito sottolinea le molte contraddizioni.
Pur introducendo novità sostanziali (dal lavoro esterno ai permessi premio), grazie alle quali l’apertura del carcere all’esterno si faceva più concreta, la legge Gozzini si pose in continuità con la logica di differenziazione e confermò l’esistenza di due circuiti, quello ordinario e quello speciale, cioè il regime di massima sicurezza precisato dall’art. 41-bis che sostituiva l’art. 90 dell’ordinamento del 1975. La concessione dei benefici fu affidata alla magistratura di sorveglianza, coadiuvata da psicologi, educatori e assistenti sociali.
Alla riforma carceraria si aggiunse nel 1990 quella dell’amministrazione penitenziaria, che trasformò il corpo degli agenti di custodia in quello della polizia penitenziaria, smilitarizzato ed equiparato alle altre forze di polizia; mentre i funzionari direttivi poterono finalmente raggiungere i vertici degli Uffici centrali che, mortificando l’esperienza conquistata sul campo, erano stati fino ad allora riservati ai magistrati della Corte di cassazione. De Vito ricorda inoltre che il volontariato laico dette un contributo decisivo alla modernizzazione: profondamente rinnovato, divenne una sorta di «ponte tra carcere e società» e «una forma di militanza senza appartenenza» (p. 120) nella quale confluirono molte esperienze degli anni ’70.
Il libro sottolinea che, se la lotta al terrorismo aveva inibito l’applicazione della riforma del 1975, la stagione delle stragi mafiose provocò un sistematico svuotamento della legge Gozzini, soprattutto attraverso l’accentuazione del doppio regime. Ne fu segno evidente la destituzione nel 1993 di Niccolò Amato dalla direzione generale. Pagine puntuali sono dedicate anche agli ultimi vent’anni che, nell’ambito di un processo di ricarcerizzazione di dimensioni mondiali, registrarono il passaggio «dallo Stato sociale allo Stato penale» (p. 128). Anche in Italia l’aumento del tasso di detenzione in corso – 45 detenuti su 100.000 abitanti nel 1990, divenuti 89 già nel
1992 – non è spiegabile secondo De Vito solo con l’incremento della criminalità, ma più in generale rifletteva le politiche di sicurezza con cui quasi tutta l’Europa reagì alle complesse trasformazioni provocate dal processo di globalizzazione.
Non a caso da quel momento tossicodipendenti e immigrati hanno cominciato a costituire i 2/3 circa della popolazione carceraria. Vi hanno influito in modo determinante i provvedimenti legislativi – dalla Turco-Napolitano (1998) alla Bossi-Fini (2002) sull’immigrazione, dalla Jervolino-Vassalli (1990) alla Fini-Giovanardi sulla tossicodipendenza (2006) – con cui si sono
colpiti gli ultimi anelli di catene criminali che agiscono ormai su scala mondiale.
In questo contesto la crisi del paradigma rieducativo si è manifestata soprattutto nell’inefficienza degli operatori previsti a questo scopo dalla legge Gozzini; una parziale eccezione, ma tuttavia insufficiente a coprire una situazione sempre più drammatica, è ancor oggi costituita dal trattamento previsto proprio per i tossicodipendenti italiani, tra cui sono in aumento i
sieropositivi.
De Vito individua nella transizione politica aperta da Tangentopoli una delle origini della virata autoritaria sul carcere, anche se in verità quella stagione non influì in modo univoco sull’immagine del carcere, che per la prima volta apparve a molti come un accidente che poteva abbattersi persino sulle persone “rispettabili”. A suo parere, fu l’uso bipartisan del concetto
di sicurezza a consentire l’approvazione del cosiddetto pacchetto sicurezza del 1999 che, istituendo un più stretto sistema di controllo carcerario, irrigidì gli assetti della polizia penitenziaria, deludendo le speranze di una sua democratizzazione riposte nella riforma del 1990. Proprio la rinnovata forza di questo Corpo ottenne dal guardasigilli Oliviero Diliberto, nello stesso anno, l’allontanamento di Alessandro Margara dalla direzione generale.
Il carcere ha accentuato in questi ultimi anni il suo carattere “frammentato” e la tendenza a ripiegarsi su di sé. Un mondo sempre più segnato da disparità geografiche e nel quale sembra sia andata completamente persa la solidarietà collettiva prevalsa negli anni ’70. Il dialogo tra dentro e fuori resta appannaggio di associazioni come Gruppo Abele e Fuoriluogo, se si escludono esperienze come la rivista dei detenuti «Ristretti orizzonti». Tra il garantismo interessato del centrodestra e il giustizialismo di molta sinistra, la questione carceraria è rimasta sostanzialmente ai margini del dibattito politico, se non per riemergere nella polemica ricorrente e capziosa sul presunto lassismo dello Stato. Oltre alla legge Gozzini, essa ha ora preso di mira il cosiddetto “indultino”, infine approvato nel 2006, un intervento timido e inefficace a tamponare le emergenze della realtà carceraria, ma tale da creare nuovi problemi a un apparato giudiziario in affanno. Prevedendo uno sconto di tre anni della pena con l’esclusione dei reati più gravi (incluso però il falso in bilancio), non è stato sostenuto da un efficace piano di reinserimento né da nessun altro intervento di più ampio respiro. I 245.000 detenuti, di cui 15.000 italiani, che ne beneficiarono si trovarono di fronte «i problemi di sempre di chi usciva dal carcere» (p. 159).
La tendenza a riproporre gli stessi meccanismi in una veste semplicemente aggiornata sembra confermare una sorta di circolarità della storia penitenziaria. In realtà la ricerca di De Vito smentisce sia l’idea di un progresso lineare che quella di una immobilità del sistema carcerario, richiamando l’attenzione sulla necessità di tenere conto dei contesti diversi in cui esso sorge. Il ruolo del carcere appare allora mutevole, e le stesse esigenze che lo governano ne fanno ora l’avanguardia e ora la retroguardia della società, lo spingono ora ai margini e ora al centro.
Sono le condizioni del carcere e la loro disumanità – in contrasto con il dettato costituzionale e con le disposizioni vigenti – a costituire una costante di lungo periodo, che incide sul degrado attuale amplificando gli effetti delle scelte dell’ultimo ventennio. Oltre il tollerabile, si intitola il sesto rapporto sulle carceri redatto nel 2009 da Antigone, l’associazione nata nel 1990 «per
i diritti e le garanzie nel sistema penale», la cui esistenza segnala di per sé l’anomalia italiana. «I numeri dell’intollerabilità» – in primo luogo la cifra record di 63.640 detenuti, 20.000 in più del consentito dagli spazi disponibili, di cui il 52,2% in custodia cautelare – dipingono un carcere ben lontano dalle norme europee e per metà «fuorilegge», come ha ammesso lo stesso guardasigilli
Angelino Alfano. Vi si aggiungono i dati sconvolgenti forniti da «Ristretti orizzonti» sulle morti in carcere: in media 150 all’anno, di cui 1/3 per cause da accertare e 1/3 per suicidio, anche se nel 2009 i suicidi hanno raggiunto la cifra record di 7213.
Per chi vuol conoscere l’Italia, queste sono le sue prigioni.

Recensione su "Le Monde Diplomatique" - maggio 2009

FIORINO IANTORNO
Quello che subito colpisce dalla lettura di Camosci e girachiavi (come vengono chiamati in gergo carcerario detenuti e agenti di custodia) è che l'attento lavoro di documentazione compiuto dall'autore permette di raccontare la storia del carcere in Italia attraverso le storie di chi l'ha conosciuto o subìto.
Dalle osservazioni di operatori, parlamentari, ministri e carcerati, oltreché da molte fonti inedite, prende corpo la realtà del sistema penitenziario, vista nella sua evoluzione storica - dalla Repubblica sociale italiana fino ad arrivare all'ultimo provvedimento d'indulto - ma anche nella fissità dei suoi meccanismi.
Il libro di De Vito si tinge a tratti del colore dell'inchiesta, quando mostra una materialità di sbarre, cortili e «domandine». Il lettore potrà allora rendersi conto di quanto, in Italia, sempre di più vengano scaricate sul carcere tensioni e problemi irrisolti dell'intera società. Una denuncia forte dello stato drammatico di un'istituzione che, in assenza di riforme mai davvero compiute, oggi necessita di una vera e propria rivoluzione.
L'autore, oltre ad essere uno storico, è anche il presidente dell'Associazione Liberarsi, che opera a livello volontario nelle prigioni italiane. La sua esperienza si riscontra in particolare nell'introduzione al volume che evidenzia, con passione e competenza, quanto anche chi lavora all'interno del sistema detentivo sia vittima delle dinamiche disumanizzanti dell'istituzione totale: un meccanismo che impregna - nella diversità di condizione - sia i «camosci» dietro le sbarre che i secondini «girachiavi».

Recensione su "Cemento e castigo" (Liberazione) - 3.1.2010

Lo storico è prudente per sua natura; esterna al lettore le sue tesi di fondo solo quando può documentarle dati alla mano con centinaia di note e snervanti citazioni di fonti d’archivio con relative abbreviazioni…; altrimenti, lascia al lettore trarre le sue conclusioni, seppure fortemente aiutandolo da quel che traspare dalle parole documentate. Egli fa il contrario del dietrologo, che esterna le sue opinioni o fantasie di cittadino spacciandosi per storico.
Il libro di Christian G. De Vito, Camosci e girachiavi. Storia del carcere in Italia 1943-2007 (Laterza 2009, pp. 216, euro 18) è quello dello storico, che prova a colmare un vuoto importante di conoscenza sugli ultimi decenni con criteri storiografici rigorosi. E che comunque gli permettono di dichiarare la sua narrazione dalla parte dei reclusi piuttosto che delle istituzioni, con l’auspicio di portare così «un contributo alla trasformazione» del sistema penitenziario.
Ma la mia non vuol essere la recensione di un libro che ho pur apprezzato, ma un’interlocuzione. Qui c’è un problema: quale tipo di “trasformazione”? Non è quella dell’autore una dichiarazione troppo timida per un terreno come quello scelto?
Nella Prefazione al libro, Guido Neppi Modona, che è giurista, ci fornisce invece la sua senza esitazioni: «La sfida è appunto quella di trasformare il carcere – ancora basato sul principio, peraltro mai realizzato, del trattamento di detenuti italiani condannati per i reati della tradizionale delinquenza individuale – in comunità destinate a fare convivere qualche decina di migliaia di tossicodipendenti e di immigrati extracomunitari, assicurando condizioni di vita materiali e morali degne di un paese civile». E’ una prospettiva inquietante: un’estensione della pena (sofferenza legale) a decine di migliaia di persone per fatti che di per sé non dovrebbero neppure costituire reato. Non è questo il cammino già in atto e che già ci preoccupa? (E come andrebbe trattato il delinquente “individual-tradizionale”? con la stessa concezione tenuta fino ad oggi?).
Per fortuna, il libro di De Vito contiene tutte le premesse per arrivare a conclusioni opposte, anche se non esplicitate. E cioè (a mio parere): l’unica riforma utile è la riduzione del carcere: della sofferenza legale. Ogni sua trasformazione è sempre un boomerang per la società o, meglio, per la civiltà. Il carcere all’inizio era una sorta di isola separata dalla società. I riformatori non hanno mai combattuto il carcere ma, a loro parere, questa separazione. De Vito mostra i loro limiti e le loro ambiguità: fin dai tempi dell’Assemblea costituente nell’immediato dopoguerra, hanno contrapposto genericamente la necessità della “rieducazione” al principio preciso – sostenuto dai conservatori (il futuro presidente della Repubblica Leone, Bettiol, il giovane Aldo Moro) – sicuritario e afflittivo. In costoro c’era «la preoccupazione che l’introduzione del concetto di rieducazione, nel testo dell’articolo relativo alla pena, minasse l’intero impianto del sistema penale: la rieducazione aveva già un suo posto, ed era nell’ambito delle misure di sicurezza; alla pena della reclusione spettava la connotazione retributiva che, sia pure mitigata da un processo di umanizzazione, doveva rimanere ben visibile».
In realtà proprio la pretesa e presuntuosa rieducazione entrando nel sistema retributivo l’ha rafforzato invece d’esserne l’alternativa. Ha finito per sostituire il premio al diritto, e così ha finito pure per farci uscire dal diritto tout-court. Da sempre, infatti, il carcere aveva attuato una pratica di punizioni-premi che si nascondeva alla società, e si sottraeva a ogni diritto ogni volta che poteva (e poteva grazie a chi girava lo sguardo dall’altra parte). Ma ora questa pratica è addirittura promossa al vertice della concezione che guida il nuovo… “diritto” penitenziario (legge Gozzini). Ha vinto, “incredibilmente”, proprio grazie ai riformatori, ossia alla defunta sinistra italiana (forse defunta proprio per questo).
Passaggio essenziale di questa sconosciuta rivoluzione copernicana è stato il grande contributo dato dalla sconfitta delle lotte armate italiane attraverso la “dissociazione” di una buona parte dei loro militanti, ossia l’abiura premiata, che ha ispirato la legge Gozzini. Da allora non si giudicano più i comportamenti ma si valutano le… anime: arbitrio e lealizzazione neo-inquisitoriali (di sinistra…?). Da allora nella società il carcere non è più un’“isola” ma il centro di un invadente arcipelago in cui la pena va ben oltre lo stato di detenzione nella sua politica di lealizzazione delle coscienze.
La riforma ha aumentato il numero dei reclusi e quello di chi è nelle mani del sistema penale anche al di fuori della reclusione vera e propria, e ha consentito l’orrore della formazione di campi di concentramento per stranieri. Per tutti, come nei lager, si è puniti per quel che si è e non per quello che si fa. Perciò, l’unica riforma possibile è la riduzione di questo centro. Parafrasando Thoreau a proposito del governo migliore (in Disobbedienza civile, 1849), direi che preferisco il carcere che incarcera meno, e anzi, che il miglior carcere è quello che non incarcera affatto. Questo in Italia vuol dire anzitutto abolire l’ergastolo come nei paesi europei più civili. La diminuzione delle pene verso livelli europei diminuirebbe poi il sovraffollamento delle carceri perché solo questo può far diminuire la condizione disumanizzante e i regolamenti che ipocritamente la rafforzano in nome di presunte riforme umanizzanti, che hanno il solo scopo di accettare il sovraffollamento.
Oggi viviamo ormai pene indefinite, affidate a pareri sempre più indefinibili su reati che vanno verso l’infinito. Il carcere e il sistema penale sono ormai irriformabili: speriamo – siamo disperatamente costretti a dire – che siano almeno nell’immediato riducibili con pene certe invece che fluide e vischiose.
Foucault diceva che è davvero strana quest’idea della nostra civiltà: che la sofferenza inflitta possa elevarci spiritualmente. Purtroppo quest’idea continua ad accomunare gli opposti schieramenti, che tali – cioè “opposti” – proprio per questo motivo più non sono. E amen.
E ora una domanda: Si vuole aumentare la pena ai poliziotti che sparano, aumentare quella per i violentatori e i pedofili, tenere chiuso persino un ultranovantenne nazista di nome Priebke, o cambiare strada? La prima aumenta i reati, perciò rafforza la giustezza del concetto “reato”, e ciò mi pare, alla luce della “Storia”, un suicidio per ogni idea di progresso civile – e spirituale. Per la seconda, chi scrive aspetta che si creino le condizioni per poterne parlare onde non farlo a vanvera. Per adesso, mentre assisto alla crisi sempre più profonda della giustizia penale, mi faccio la galera, direi quasi volentieri. Nulla vedo all’orizzonte; ogni tanto mi viene da sperare in una stramba idea, come primo passo: che nella magistratura qualcuno ancora “all’antica”, un vecchio conservatore si ribelli, invece di compiacersi, al sovraccarico che la “politica” gli ha affidato, prima con una sorprendente “via giudiziaria al socialismo” (ai tempi di Tangentopoli), ormai con l’abdicazione stessa alla politica di politiciens autoreferenziali, di “destra” o di “sinistra” che siano.

Recensione "Rassegna penitenziaria e criminologica" - 2009


«Microstoria» del carcere, dal ‘43 ai giorni nostri
Christian De Vito
Camosci e girachiavi. Storia del carcere in Italia.
Editori Laterza
Roma – Bari, 2009.
Nel 2004, intervenendo a un convegno, Alessandro Margara, ex magistrato di sorveglianza e già capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha dichiarato polemicamente: «Si vuole concretamente applicare la legge di riforma esistente?» «Si vuole che divenga realtà?»1, ha aggiunto, lamentando l’indebolimento della spinta riformatrice della legge del ’75.
Secondo un consolidato schema sociologico, le istanze di riforma carceraria sarebbero sorte contestualmente alla nascita delle moderne istituzioni penitenziarie e ne avrebbero accompagnato la storia. Ma la rivendicazione di una “pena dolce”, sottratta all’abuso di un sovrano e regolamentata dal diritto, avrebbe in realtà fornito legittimazione al carcere, mascherando ipocritamente il vero volto dell’istituzione totale, la sua vocazione alla violenza e al controllo sociale. Gli obiettivi dell’umanizzazione della pena e della rieducazione sarebbero soltanto utopie, destinate a non realizzarsi mai compiutamente. Nella quotidianità carceraria, la pena conserverebbe ancora tutto il suo carico di sofferenza e afflizione.
A questo schema, che trae origine dagli studi di Foucault e dal suo celebre Sorvegliare e punire, sembra conformarsi anche la storia delle istituzioni penitenziarie italiane, così come ce le racconta
Christian De Vito, nel suo “Camosci e Girachiavi. Storia del carcere in Italia”, Editori Laterza, Roma – Bari, 2009.
Nel periodo che va dal dopoguerra ai giorni nostri, la riforma penitenziaria appare prima invocata, poi accantonata, finalmente approvata, in un alternarsi di aperture e chiusure alle istanze riformiste, per finire sostanzialmente negata, dietro al velo della nuova «modernità penitenziaria».
Negli anni della costituente, la battaglia per una riforma era stata rilanciata dai parlamentari che avevano vissuto l’esperienza del carcere negli anni del fascismo. Ma quella stessa classe politica,
che si era battuta per l’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta, non era riuscita a condurre in porto una riforma, in un clima politico, quello degli anni ’50, più votato alla conservazione delle vecchie strutture statali uscite dal fascismo, che alla trasformazione. Si dovette attendere gli anni sessanta, per riportare nell’agenda dei lavori parlamentari le prime ipotesi della riforma, sotto la spinta delle rivolte carcerarie, delle proteste degli agenti di custodia, di parte della società civile, ma anche della stessa amministrazione penitenziaria, che stava sperimentando negli istituti di osservazione una nuova metodologia di trattamento, incentrata sul paradigma della criminologia clinica.
Il testo licenziato il 26 luglio 1975, era uscito dall’ultima fase del procedimento legislativo ridimensionato nei suoi contenuti più innovativi: regolamentava la giurisdizione della pena, prevedendo limitate misure alternative, apriva il carcere alla comunità esterna, introduceva nuove figure professionali per attendere al trattamento rieducativo; non venivano affrontati, invece, i nodi della riforma dell’amministrazione, del corpo degli agenti di custodia, delle strutture carcerarie. La riforma, inoltre, non era stata coordinata con la revisione degli altri codici; i servizi penitenziari non erano integrati con quelli del territorio. Conseguentemente, nei suoi primi anni, il nuovo trattamento penitenziario incontrò difficoltà di attuazione, in un clima segnato dall’attacco terrorista alle istituzioni carcerarie, che imponeva come obiettivi prioritari la sicurezza e il mantenimento dell’ordine. I nuovi operatori, che fecero ingresso in carcere soltanto nel ’79, dovettero affrontare un lungo tirocinio per conquistare spazi di operatività.
Soltanto negli anni ’80 si aprì una fase di sperimentazione e di cambiamento, culminata con l’approvazione della legge «Gozzini». È, a parere di De Vito, l’epoca d’oro della riforma, quella della pacificazione delle carceri e della dissociazione dal terrorismo, favorita dalla stessa amministrazione penitenziaria con la creazione delle aree omogenee; del rilancio delle misure alternative, con la previsione di nuovi e più ampi strumenti di trattamento e di decarcerizzazione.
Ma è una fase di breve durata, chiusa con l’emanazione dei decreti dei primi anni ‘90. L’emergenza, questa volta, è quella della criminalità organizzata. I nuovi provvedimenti limitano l’attività giurisdizionale, restringono le possibilità di accesso alle misure alternative, differenziano il trattamento sulla base di una pericolosità presunta dal titolo di reato. È lo svuotamento progressivo della legge «Gozzini», il tramonto della nuova cultura penitenziaria, dell’ideologia del trattamento: è l’alba della «modernità penitenziaria» (che coincide con la rimozione del capo del dipartimento Nicolò Amato), del nuovo efficientismo penitenziario che celebra le sue «cerimonie istituzionali», rafforzando le funzioni custodialistiche.
L’ultimo capitolo della storia, raccontata da De Vito, è relativo ai giorni nostri: quelli del carcere come contenitore di problemi sociali, delle mille marginalità che non trovano una risposta assistenziale, del sovraffollamento carcerario alimentato dagli immigrati e dai tossicodipendenti; del progressivo espandersi dell’area penale (interna ed esterna), come unica risposta ad un esigenza di sicurezza vera o presunta, fino all’emanazione di un provvedimento di indulto, attuato senza un programma di accompagnamento delle persone che lasciavano le celle.
Per tracciare questo percorso, De Vito ha svolto approfondite ricerche nell’Archivio centrale dello Stato e in quelli centrali e periferici dell’amministrazione penitenziaria. La parte più interessante
del lavoro, riguarda il recupero dei documenti della commissione d’inchiesta presieduta dall’On. Persico. La commissione, istituita nel 1949, acquisì la testimonianza dei detenuti politici che avevano vissuto il carcere nell’epoca del fascismo, e quella delle persone ristrette nelle carceri della nuova repubblica. Con la circolare del 22 luglio 1949, l’allora Direzione Generale per Istituti di Prevenzione e pena, informò la popolazione carceraria della facoltà di comunicare direttamente con la Commissione, inviando in busta chiusa lettere e istanze direttamente presso gli uffici parlamentari. Le numerose lettere pervenute alla Commissione, tutte protocollate e conservate, nonché le testimonianze dirette raccolte durante le visite agli istituti, fornirono un quadro realistico delle condizione di vita dei detenuti nelle carceri dell’epoca.
De Vito, mezzo secolo dopo, ha sviluppato le linee tracciate da quel lavoro, con l’intento di offrire una visione dal basso dell’istituzione penitenziaria; ha realizzato una «microstoria» del carcere attraverso l’esperienza di chi l’ha visto, raccogliendo così l’esortazione contenuta in un celebre discorso di Piero Calamandrei alla Camera dei Deputati, nel 1948. Lo ha fatto recuperando le lettere dei detenuti, la corrispondenza dei direttori e dei comandanti degli istituti, le ordinanze dei magistrati, il ricordo dei cappellani, fino alle note di osservazione degli operatori penitenziari contenute nelle cartelle biografiche dei detenuti. Il risultato è una ricostruzione che guarda oltre i documenti ufficiali, che non cela la complessità dei processi storici, la difficoltà tutt’ora perdurante di realizzare quei contenuti della pena indicati dai costituenti, il valore simbolico che la pena detentiva continua ad esercitare, le sofferenze che alimenta.
Un giudizio complessivo dell’opera non può prescindere, tuttavia, da alcune osservazioni. La prima riguarda la scarsa originalità di alcune parti e di tesi che appaiono precostituite. I primi capitoli, riguardanti il periodo precedente all’approvazione della riforma, ripropongono, nelle sue linee di sviluppo, interpretazioni già svolte precedentemente, seppure integrandole con nuove fonti. A quest’ultimo riguardo, risulta di particolare interesse la narrazione delle campagne di politicizzazione della popolazione detenuta organizzate da alcuni gruppi della sinistra extraparlamentare, in particolare ad opera di Lotta Continua, a partire dalla fine degli anni
‘60; e la descrizione del clima politico e sociale che accompagnò il varo della legge 354.
Più complesso appare il giudizio circa la ricostruzione delle epoche successive, in particolare riguardo al periodo della legge «Gozzini», considerata dall’autore come la «vera riforma penitenziaria »; e quello relativo alla svolta impressa nei primi anni ’90, che avrebbe chiuso definitivamente l’epoca del riformismo carcerario. Secondo altri autori, invece, fu proprio la legge 663 del 1986 ad operare la controriforma, a stravolgere l’originario disegno della legge del ’75 e ad avviare il sistema dell’esecuzione verso il superamento della cultura special-preventiva di tipo trattamentale.
Lo schema teorico di quella riforma, costruito sull’analisi della personalità e sul trattamento individualizzato, venne sostituito da un’idea disciplinare della pena, fondata sullo scambio tra accesso ai benefici e buon comportamento; e fu proprio la legge «Gozzini» a prevedere, per la prima volta, un diversificato regime di trattamento, con l’introduzione nell’ordinamento degli artt. 14 bis e 41 bis.
Quanto ai provvedimenti restrittivi dei primi anni ’90, furono la conseguenza inevitabile del disordinato sovrapporsi delle riforme attuate in ambito penale. L’abbattimento delle pene per effetto dei procedimenti abbreviati, aveva allargato l’utenza delle misure alternative anche a casi di notevole pericolosità. Come osservò Luigi Daga, la moltiplicazione dei benefici penitenziari, unita alla eccessiva discrezionalità nell’applicazione delle pene in giudizio, avevano determinato una «vasta e scandalosa ineffettività delle pene», che aveva, di fatto, annullato la funzione rieducativa delle pene.
La riforma penitenziaria, sotto alcuni aspetti, era nata già vecchia nel ’75, ereditando la metodologia del trattamento clinico sperimentata negli istituti di osservazione a partire dagli anni ’50. La riforma dell’86, completata successivamente con la legge 165 del 1998, ha riavvicinato il sistema esecutivo a quello diffuso negli altri paesi occidentali, fondati sulle pene sostitutive. Ma permangono le problematiche connesse al mancato coordinamento della legge penitenziaria con gli altri codici e, in particolare, alla mancata riforma del codice penale. Tutto il sistema continua ad essere incentrato sulla pena carceraria, mentre andrebbe prevista una gamma di sanzioni diversificate da applicare già nella fase di cognizione. La scarsa efficienza del sistema penale, continua a fornire argomenti a chi vorrebbe superare del tutto la riforma e i suoi principi fondativi; e continuare, come ha scritto Margara, ad «allargare e ribadire la galera».

Intervista su "Nuova Società" - 8.6.2009

Camosci e girachiavi
Lunedì 08 Giugno 2009 12:23
di Davide Pelanda

Parlare oggi di carcere vuol dire parlare di una struttura che sta letteralmente scoppiando. Ce lo dicono sia i detenuti stessi che gli educatori ed i volontari. «La situazione sta precipitando anche in un carcere, fino a poco tempo fa considerato migliore di tanti altri, come la Casa di reclusione di Padova – fanno sapere appunto i detenuti stessi dalla cittadina veneta - La terza branda che stanno aggiungendo in celle singole, già usate come doppie, rende lo spazio così invivibile, che il dirigente sanitario si è rifiutato di firmare l’abitabilità di quelle che, elegantemente, vengono chiamate "stanze di pernottamento". Purtroppo, mai come ora è stata attuale la vecchia idea di Voltaire che "il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"».
Di carcere ne abbiamo parlato con Christian G. De Vito, per lungo tempo volontario nelle carceri di Firenze e Prato, ed ora autore del libro “Camosci e girachiavi – Storia del carcere in Italia” (ed. Laterza, 13 euro).
De Vito cosa pensa delle strutture carcerarie che stanno scoppiando?
«Esse sono il prodotto delle scelte compiute degli ultimi venti anni a livello politico, in particolare con riferimento all'immigrazione e alle tossicodipendenze. Se non si torna indietro su quelle scelte, non si potranno avere carceri meno piene. Si penserà invece di costruire più carceri, come sembra voler fare il governo con il “piano carceri” di cui si parla in questi giorni; ben sapendo che, anche ammesso che saranno costruiti, i diciassettemila nuovi posti letto si riempiranno prestissimo e serviranno solo a stimolare un ulteriore incremento della repressione e delle retoriche della sicurezza.
Quella delle carceri che scoppiano del resto è una vicenda non solo italiana, ma mondiale, che rimanda all'affermarsi a livello globale di politiche neoliberiste: basti pensare agli Stati Uniti, passati in trenta anni da 300.000 a oltre 2.000.000 di detenuti. Una tendenza che riguarda anche paesi tradizionalmente riformatori in ambito penitenziario, come quelli scandinavi o i Paesi Bassi.
Del resto, il problema delle carceri che scoppiano non è solo una questione di numeri. Il sovraffollamento, che ne è la principale traduzione concreta, vuol dire vivere per ore e ore in pochi metri quadrati con tre, quattro e talvolta anche otto o nove persone. E' una situazione inumana e del tutto illegale, che pone con urgenza la questione di fare qualcosa, di una strategia alternativa a quella repressiva che domina»
Eppure c'è chi dice che in carcere si sta bene, che "stanno come in albergo" . E' veramente così?
«Assolutamente no. I cittadini e le cittadine, e anche tantissimi uomini e donne politici, dovrebbero vedere le carceri prima di fare affermazioni del genere. Dovrebbero vedere le celle con i letti a castello a quattro piani, dove si mangia seduti sui letti perchè perfino gli sgabelli di legno sono spesso insufficienti rispetto al numero dei detenuti presenti. Dovrebbe vedere anche questi famosi televisori nelle celle, che così spesso vengono dipinti come il simbolo stesso del “carcere albergo” e che invece nella realtà del carcere sono una trappola infernale, perché avere come unica attività per ore e ore e per molti mesi quella di stare davanti a un televisore è un supplemento di condanna, non certo un lusso.
No, le carceri non sono degli alberghi. Sono istituzioni dove mancano le cose anche più semplici, dove ogni detenuto vede negati anche diritti fondamentali come quello alla salute. Sono anche luoghi di violenze, sia nella forma dei continui arbitri e ricatti, sia in quella delle vere e proprie violenze fisiche, molto meno rare di quanto si pensi»
Nella situazione che lei descrive il carcere, si può ancora parlare di struttura rieducativa per chi ha commesso reati?
«La logica della rieducazione è vecchia come il carcere stesso. L’idea della punizione si è sempre accompagnata con quella di riempire il tempo trascorso in carcere di attività che modificassero la personalità e lo stile di vita dei detenuti. E’ da questo che derivano già nell'Ottocento i principi dell'individualizzazione del trattamento e della specializzazione delle carceri; questo è il senso anche della pena “rieducativa” definita nell'art.27 comma 3 della Costituzione italiana.
Tali principi a seconda dei casi sono stati tradotti in termini strettamente clinici (dalla scuola della “difesa sociale” negli anni Cinquanta e Sessanta) o in termini morali-religiosi (come “redenzione” del condannato). Dalla metà degli anni Settanta, la riforma del 1975 e poi la legge Gozzini del 1986 hanno dato un'interpretazione più legata all'idea del reinserimento sociale, ma ciò si è anche coniugato con meccanismi premiali all'interno del carcere: in sostanza, la massa dei detenuti è stata divisa in tanti settori o “circuiti” (massima sicurezza, media sicurezza, custodie attenuate, sezioni per tossicodipendenti, reparti di osservazione psichiatrica), mentre ogni detenuto è stato spinto a mantenere comportamenti conformi alle regole penitenziarie, per evitare di perdere la possibilità di ottenere vari “benefici”, come il lavoro interno e poi esterno, la semilibertà, l'affidamento in prova al servizio sociale. Ciò che era stato concepito come uno strumento di decongestionamento del carcere è tuttavia diventato sempre più uno strumento di controllo di una popolazione carceraria in costante aumento; parallelamente, le misure alternative hanno perso ogni loro “alter natività” rispetto alla detenzione, divenendo complementari all'aumento della popolazione carceraria.
Nel frattempo, è mutata radicalmente la composizione della popolazione detenuta. Le riforme degli anni Settanta e Ottanta erano rivolte a un detenuto-tipo di nazionalità italiana, con la possibilità di reinserirsi a livello abitativo e lavorativo in un tessuto sociale preesistente. Fino a un certo punto questa configurazione si è potuta adattare alla realtà dei detenuti tossicodipendenti, per i quali tuttavia vi erano delle esigenze anche sanitarie alle quali lo sviluppo delle comunità, dei ser.t. e delle sezioni a custodia attenuata ha risposto in maniera sempre solo parziale. Oggi la realtà è ulteriormente mutata: se si pensa che nelle maggiori carceri ormai gli immigrati sono oltre il 50% dei detenuti, si può capire quanto questo modello di intervento sia superato, o quantomeno marginale, rispetto a un carcere che svolge una funzione puramente contenitiva e repressiva.
Analizzando le cose in questi termini secondo me si può capire la crisi permanente nella quale si dibattono sempre più tutte le attività trattamentali e i progetti ad esse ispirate: sono strutturalmente condannati ad una marginalità sia numerica che simbolica, ad inseguire inutilmente una vera e propria alluvione di detenuti e di disuguaglianza sociale. Sono processi che provengono dall'esterno del carcere e che hanno molto a che fare con le trasformazioni del mercato del lavoro e con il progressivo smantellamento anche di quel poco di welfare che era stato edificato a partire dagli anni Settanta. A questo va aggiunto un altro elemento: alla prospettiva del “reinserimento” dei detenuti, in Italia, le autorità politiche non hanno mai veramente creduto. Lo dimostra il fatto che le risorse per queste attività sono da sempre incomparabilmente inferiori rispetto a quelle riferite alla funzione custodiale del carcere. Si può trovare prova di questo in ogni carcere, basta comparare il numero degli agenti di polizia penitenziaria a quello degli educatori: nel carcere di Firenze, per esempio, dove ci sono in questo momento 940 detenuti a fronte di una capienza di 470 posti, ci sono 420 agenti e 5 educatori»
Cosa si può pensare in alternativa al carcere in Italia oggi?
«La mia ricerca storica sul sistema penitenziario dal 1943 ad oggi credo metta in luce, tra le altre cose, il fallimento del riformismo penitenziario. La crisi della ideologia della “rieducazione” è infatti solo un aspetto di una marginalizzazione complessiva della prospettiva di trasformazione dell'istituzione penitenziaria. Di fatto, attraverso i decenni, il carcere ha continuato sempre a funzionare come una discarica sociale nella quale sono stati sistematicamente riversati i rifiuti dei processi socio-economici che avvenivano al di fuori delle mura di cinta. Per altro verso, tutta l'idea che il periodo trascorso in carcere potesse favorire un successivo reinserimento dei detenuti si è scontrata, oltre che con i limiti già detti dell'area “trattamentale”, con un sistema di assistenza sociale del tutto insufficiente e con il permanere di radicati pregiudizi nella popolazione. Basta vedere cosa è successo quando c'è stato l'indulto del 2006: gli indultati uscivano dalle carceri con sulle spalle i sacchi neri dell'immondizia dove avevano i loro vestiti e fuori trovavano qualche volontario, nel disinteresse pressoché totale delle istituzioni. Anche il tanto sbandierato rientro in carcere degli indultati - rimasto in verità su tassi straordinariamente bassi - è derivato da questo processo di abbandono sociale piuttosto che da una presunta “tendenza criminale” di quelle persone.
Bisogna quindi ripensare le strategie di trasformazione del carcere, tenendo presente il collegamento tra il carcere e la società. Occorre dunque innanzitutto smantellare l'apparato securitario messo in campo negli ultimi due decenni: dalla legislazione speciale su tossicodipendenti (legge Fini-Giovanardi) e immigrati (legge Bossi-Fini), alle tante ordinanze comunali dal chiaro impasto razzista; dalle norme che hanno rafforzato i sindaci e le prefetture a quelle che hanno equiparato di fatto le polizie locali alle forze dell'ordine. Su questa base mutata, occorre finalmente procedere all'approvazione di un nuovo codice penale che depenalizzi una serie di reati minori, favorisca sistematicamente la concessione di misure alternative sin dalla fase del giudizio e proceda all'abolizione di quella autentica tortura che è l'ergastolo. L'ulteriore potenziamento di misure alternative in fase di esecuzione penale dovrà poi andare di pari passo con la strutturazione di politiche sociali non più frammentate per settori assistenziali, ma integrate a livello di enti locali e di aree metropolitane. E' da questo nuovo protagonismo della politica, che per troppo tempo e tuttora delega ai tecnici gli assetti dell'universo carcerario, che possono scaturire le condizioni per processi di abolizione di alcune parti del sistema penitenziario. Ne indico come esempio alcune per le quali l'abolizione appare tanto urgente quanto rapidamente praticabile: gli ospedali psichiatrici giudiziari e le sezioni psichiatriche, attraverso la presa in carico di quanti sono internati da parte dei servizi di salute mentale territoriali; le carceri minorili, estendendo le strutture di accoglienza in modo da poter estendere i benefici previsti dalle leggi attuali anche ai minori immigrati, che sono di fatto gli unici “ospiti” di tali strutture; le sezioni “nido” delle carceri femminili, dove bambini al di sotto dei tre anni sono incarcerati insieme alle loro mamme detenute.
E' realistica questa strategia? Io credo di sì, a patto che non solo ci sia una attenzione maggiore della politica e dell'opinione pubblica attorno alla “questione carcere”, ma che anche i detenuti facciano sentire la loro voce, prendendo coscienza del loro ruolo fondamentale nel cambiare il carcere. La mobilitazione dei detenuti è un fattore determinante. Non dimentichiamoci infatti che l'unico momento di effettiva rottura e di cambiamento nella storia del carcere nell'Italia repubblicana si è avuto a seguito delle grandi rivolte e proteste dei detenuti, in particolare tra il 1969 e il 1973. Senza quei movimenti, che sono costati anche vittime tra i detenuti, non ci sarebbero state probabilmente neppure le limitate riforme del carcere del 1975 e del 1986»
Ha condiviso l'indulto di qualche estate fa? Si è risolto qualcosa per ciò che è l'affollamento delle strutture carcerarie con questa a dir poco bizzarra decisione?
«Ho condiviso l'indulto e, anzi, ho attivamente partecipato alla mobilitazione per l'indulto sin dal 2000, organizzando insieme ad altre persone, dibattiti, banchetti informativi e presidi di solidarietà sotto alcune carceri dove i detenuti si mobilitavano in questo senso. Chiedevamo - i detenuti e noi di tante associazioni e gruppi - un indulto generalizzato accompagnato dall'amnistia, dal rovesciamento delle politiche su immigrazione e tossicodipendenza e da un intervento finanziario specifico che destinasse risorse alle carceri e alle strutture per le misure alternative. L'indulto/amnistia lo concepivamo come una sorta di risarcimento per le condizioni vergognose in cui i detenuti erano stati tenuti in carcere, ma anche come un punto di svolta possibile sulle politiche del carcere.
Lo voglio ripetere: secondo me l'indulto era giusto e necessario. Le modalità con cui è stato fatto rivelano invece contraddizioni che sono tutte interne al mondo politico istituzionale, il suo sostanziale disinteresse rispetto alle condizioni concrete di migliaia di detenuti e l'autoreferenzialità di scelte fatte in nome degli equilibrismi partitici. Non a caso, dal momento successivo all'approvazione dell'indulto, quasi tutti i politici hanno fatto a gara per lavarsene le mani e per invocare nuovi provvedimenti per la “sicurezza”. In ogni caso, se attualmente siamo ritornati ai numeri pre-indulto e, anzi, li abbiamo ormai anche superati, ritengo che ciò sia da imputare non all'indulto, ma alla mancata volontà politica di fare dell'indulto un momento di riflessione e di svolta più ampio rispetto alla “questione carcere”»

Intervista a Radio Fujico - Bologna - 3.9.2009

Giovedì 3 settembre alle 19 intervista con Christian DeVito sulla storia delle carceri italiane.

Su questi link potete trovare le interviste di questa settimana e un archivio delle vecchie interviste e i nostri consigli di lettura.

"Camosci e girachiavi" è il titolo del saggio uscito per Laterza dello storico Christian DeVito, un titolo significativo: i camosci sono i detenuti così chiamati dagli agenti di custodia, i girachiavi viceversa sono il nome dati dai detenuti agli agenti di polizia. Sono le "categorie che fanno il carcere e che ne costituiscono l'impronta materiale".
La prospettiva storica con cui DeVito analizza oltre 60 anni di vita nelle carceri è quella sociale, capirne il ruolo e come queste abbiamo "plasmato sia i detenuti sia la realtà esterna" per osservare da un altro punto di vista, da un altro luogo la nostra storia recente. Un esempio è il boom economico: nelle celle ad inizio anni '60 c'erano prevalentemente immigrati meridionali e questo offre la possibilità di vedere "l'incompletezza, le contraddizioni di quel miracolo economico".
Altre due fasi della nostra storia sono oggetto dell'attenzione di DeVito: gli anni '70, quelli "dell'insubordinazione, delle contestazioni a cui seguì un profondo cambiamento di legislazione, popolazione; e l'arrivo dei boss mafiosi dopo i maxiprocessi, le prime condanne e la legge sul "carcere duro" e la stagione delle stragi che fu la vendetta conseguente. Sull'oggi si parla spesso di sovraffolamento, di condizioni igieniche e di trattameti al limite della sopportazione umana. Se ne discute senza che soluzioni plausibili siano all'orizzonte nell'agenda di governi e politici, e questo significa anche che le carceri non adempiono alla loro duplice ragion d'essere: punire e riabilitare, ammesso che questo sia mai stato uno scopo.
In questo senso un provvedimento molto discusso come l'indulto, varato dal governo Prodi per attenuare il sovraffolamento, è stato un palliativo perchè ha risolto solo in superfice e temporaneamente, mentre non ha avuto un'incisività profonda e di sistema. Sarebbe stato necessario, e lo sarebbe tuttora dice DeVito se accompagnato "da revisioni sia della legislazione sull'imigrazione e sulla tossicodipendenza, sia delle politiche di reinserimento". In tutto questo continua lo storico pesano le responsabilità della politica più interessate alla retorica della sicurezza, spesso connotate di venature classiste e razziste, che alle politiche carcerarie.
Ultima domanda sulle fonti: DeVito ha spulciato, non senza difficoltà, gli archivi penitenziari, e ha visitato numerosi carceri anche grazie adf Associazioni come Antigone che difendono i diritti e le garanzie nel sistema penale.

Recensione "Liberazione" - 15.8.2009

Liberazione - sabato 15 agosto 2009
Storia d'Italia da dietro le sbarre un affare di tutti

Il libro di Christian G. De Vito, La storia del carcere in Italia dal 1943 a1 2007 (Laterza pp. 159 più note, fonti d'archivio e bibliografia) è un gesto di umiltà e nello stesso tempo di coraggio nei confronti degli abitanti del mondo al di là delle sbarre. Lo scrittore infatti, forte come molti della sua generazione dello slancio dei volontari che entravano nei penitenziari per cambiarli, per aiutare la nascita di una stagione di diritti, passa la parola e la penna nelle mani dei detenuti. Così, fin dalla prima scena, recante la denuncia di un arresto avvenuto nel 1969 giuntaci per lettera clandestina, il libro mette sempre in relazione il giudizio dei ristretti nei confronti nostri e dell'istituzione totalizzante, dedicandosi in parallelo all'approfondimento di quanto dei tentativi provenienti dal mondo esterno sia passato all'interno di quelle mura e, confortato da documentazioni e testimonianze a tutto campo, azzarda una storia del carcere, come soggetto che acquista una sua personalità, un suo codice e, purtroppo, una sua autonomia dalla società in cui è inserito, pur facendone parte.
Siamo così a leggere una storia d'Italia che inizia nel '43 col suo vero risorgimento, la Resistenza, la sconfitta dei nazisti e della Repubblica Sociale, partendo dalle condizioni di vita nei penitenziari del Paese diviso in due. I detenuti erano 67.000 nel 1942, e l'anno seguente in seguito alla caduta del fascismo, il 25 e 26 luglio, a Roma ben 1349 di loro evasero da Regina Coeli, con l'aiuto della folla di cittadini che respiravano una atmosfera di euforia. Ma già pochi mesi dopo, all'armistizio dell'8 settembre, molti furono a cadere nel tentativo di evasione represso assieme ad altri tumulti a Roma. Con la divisione del paese fra la parte occupata dagli alleati e quella in mano ai repubblichini ed ai nazisti, i meno fortunati dei privati di libertà contribuirono ad ingrossare le file degli eserciti di lavoratori forzati nei campi di sterminio in Austria e Germania, e di questi i primi prescelti furono i detenuti politici, e comunque quelli privi di possibilità di difesa. La storia prosegue, e mentre il lettore vede frustrate molte delle sue speranze riposte nel dopoguerra, il detenuto sviluppa davanti ai nostri occhi la capacità di assumere la sua dignità di "delinquente professionale", ribelle perché spinto ai margini della società ma fiero e poco propenso al dialogo, perché quest'ultimo fa più comodo al governante che glielo propone. Gli anni 40 e 50 vedono le scelte "securitarie" del guardasigilli Togliatti, di fronte alle proteste dei detenuti, ma la Costituzione afferma con l'articolo 24 che la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, e con l'articolo 27, comma terzo, la funzione rieducativa della pena. Proprio attorno a questo principio, che in queste settimane vede mobilitazioni di associazioni di detenuti, di volontari e giuristi, si potrebbe dire che ruoti la Storia d'Italia attraverso le carceri.
Grande fu lo sforzo di giuristi, politici, e più tardi militanti di sinistra, volontari cattolici e non, per dare all'istituzione assoluta la certezza della utilità della carcerazione. I risultati ottenuti dalla parte garantista e antigiustizialista sono sempre stati limitati dalla istituzione carcere. Essa, proprio perché elefantiaca, burocratica, ha saputo in questi sessant'anni prevenire, rallentare, rendere inutili anche i tentativi che l'Italia dell'autunno caldo, degli anni 70 che nulla avevano lasciato di intentato per destabilizzare il sistema (si pensi ai Proletari In Divisa dell'esercito ed alle commissioni carcere di Lotta Continua). Il miracolo economico, infatti, portò i suoi arricchiti ma esasperò coloro che furono invece i respinti ancora più ai margini. La banda Cavallero, i banditi a Milano, l'identificazione fra "impoverito" dalla società e "allontanato dagli occhi di tutti" in galera, furono la spinta verso la conflittualità che dal ‘69 al ‘75 sconvolse il sistema rieducativo, quasi sempre in mano ad educatori ed assistenti del mondo cattolico. Qui forse De Vito compie lo sforzo più difficile, quando analizza la distanza fra la teoria costruita dai giovani di Lotta Continua, che avevano riposto fiducia in quel sottoproletariato così vicino alla sconfitta ma capace di grandi slanci, e la distanza pratica che incontrarono quando furono richiusi in cella assieme, per le autoriduzioni o le occupazioni delle case fatte nelle grandi metropoli. L'autore, per essere fedele alla costruzione di una storia dal carcere, fa adottare al libro sempre più il linguaggio asettico delle domandine prodotte dai detenuti per avere un colloquio, il linguaggio burocratico che adoperano i direttori relazionando sugli atti di autolesionismo commessi dai reclusi, atteggiamento che poi verrà adottato dalle nuove generazioni di volontari. Dalla grande sconfitta che seguì, dagli anni di piombo, veniamo portati sempre sui due binari paralleli, quello della Giustizia come mondo nel mondo, e quella parte di società che in qualche modo ne viene affascinata, al compimento della prima grande riforma nel 75, alla Gozzini che deriva direttamente dagli anni di piombo e dalla necessità di costruire due velocità di trattamento, quella che premia e quella che esclude. Fino ai giorni nostri, questa storia potrebbe entrare a far parte di un manuale a più voci, comprendente gli ospedali psichiatrici, gli ospedali, le caserme militari, da consegnare al lettore perché non abbia più a stupirsi di fronte alle reazioni che siamo soliti descrivere come "spirito di corpo". Adottiamo con l'autore la scelta oggettiva, che attualmente vede fianco a fianco volontari, alcuni direttori, molti agenti di polizia penitenziaria, una rete di associazioni sul territorio nazionale, occuparsi di detenuti, di migranti rinchiusi in carcere e in Cpt spesso perché le leggi securitarie li trasformano da trasgressori di infrazioni in delinquenti, di tossicodipendenti, di persone che vengono lasciati marcire perché ormai la società sta dismettendo lo stato sociale, e deve nascondere l'immondizia sotto i tappeti. Potrebbe essere una soluzione, senza commettere gli errori dell’80, una ripresa di apertura delle carceri alla società, senza ideologie salvifiche, ma col buon senso di chi fa conoscere il male per poterlo curare. La storia continua.
Marcello Pesarini